giovedì 17 novembre 2016

Ho messo in vendita una prima bozza del libro, nella speranza di avere lettori in anteprima che mi aiutino con i loro suggerimenti per la stesura definitiva
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/292868/il-friuli-nella-storia-deuropa/
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/292868/il-friuli-nella-storia-deuropa/

sabato 1 ottobre 2016

Il Secolo XI

Il secolo XI. Le origini del Patriarcato di Aquileia.

            Mille e non più mille. Con questa affermazione negli ultimi scorci del X secolo, si andava pronosticando la fine del mondo per la notte di San Silvestro del 999 d.C.
            Si legge che qualche uomo di chiesa,  abbia approfittato della convinzione della imminente catastrofe, per guadagnarsi qualche lascito a proprio favore, in cambio di assicurazioni sul Paradiso, e sconti di pena per il Purgatorio.  Non a caso la credenza aveva un’origine religiosa, la si metteva infatti  in relazione con alcuni passi dell’Apocalisse di San Giovanni, ove l’autore  dice d’aver visto un angelo discendere dal cielo ed incatenare Satana per mille anni.  Trascorso il periodo,  il demonio si sarebbe liberato e assunte le vesti dell’Anticristo avrebbe provocato la fine del mondo.
            Che qualcuno vi abbia creduto non v’è dubbio,  se anche nel Duemila  c’è stato chi  ha dato seguito alla profezia dei Maya secondo la quale il mondo sarebbe finito  al chiudersi del 2012. Qualcuno se ne sarà approfittato, come sempre succede. Anche oggi c’è chi campa e si arricchisce sulla buonafede altrui.
            La leggenda del mille e non più mille parla però di  folle disperate ad attendere lo scoccare dell’ultima mezzanotte.  Forse non andò proprio così. E forse è solo una leggenda inventata molto tempo dopo. Ma le leggende hanno sempre un fondo di verità, nascono per  spiegare qualcosa. In questo caso, chi l’ha inventata  credo volesse spiegarsi e spiegare il  cambiamento radicale a livello culturale, sociale ed economico intervenuto in Europa attorno all’anno mille.
            La leggenda proponeva una spiegazione del fenomeno  nel fatto che  prima la gente non aveva motivo di impegnarsi in qualcosa, essendo imminente la fine di tutto. Dopo invece, messa da parte tanta inutile paura, preso atto che il sole continuava a splendere, la gente si è scatenata dandosi a vivere con un entusiasmo nuovo e con una grande spirito d’intraprendenza. Dalla paura di morire alla gioia di vivere!
            La spiegazione che ci forniscono gli storici per quello che fu un vero e profondo  cambio di mentalità  è invece un’altra. La coincidenza con l’anno mille è casuale. Le motivazioni che hanno portato a una consistente e decisa ripresa economica e rinascita sociale e culturale, vanno ricercate nel fatto che dopo secoli trascorsi in difesa, l’Occidente europeo aveva ripreso  il suo ruolo politico-culturale. Erano finite le invasioni barbariche che avevano caratterizzato la vita dell’Europa nei tempi precedenti.  Dopo secoli, per la prima volta, l’Europa viveva dei momenti di relativa pace.
            Ebbe così  inizio  un processo di incremento  costante  della popolazione. Di conseguenza ci fu uno sviluppo dell’economia agricola per soddisfare la maggiore richiesta di cibo. Iniziò  quindi una vera aggressione al bosco per ridurre a cultura nuovi terreni. E dato che, come sempre, la necessità aguzza l’ingegno, si individuarono delle importanti innovazioni tecnologiche, finalizzate ad aumentare la produzione riducendo l’impegno di lavoro. A parità di sudore, maggiore prodotto!
            Si introdusse l’uso del ferro di migliore qualità negli strumenti da lavoro. Sia nelle asce e nelle seghe dentate dei boscaioli, che negli aratri da dissodamento dei contadini.
            All’aratro ad una lama che permetteva solo di incidere il terreno, si aggiunse il versorio, la lama metallica ricurva che rovescia le zolle e consente di smuovere il terreno più in profondità. La capacitrà di sforzo degli animali da lavoro venne migliorata con accorgimenti che ora ci sembrano banali, ma che consentirono  di raddoppiare la forza lavoro.
            Fino ad allora gli animali da traino venivano legati al carro, o all’aratro, con cinghie di cuoio che giravano intorno al collo. La compressione dei legamenti impediva di sfruttare tutta la forza nei momenti di maggiore sforzo. Si inventò allora per i buoi  un giogo frontale in legno che poggiava sulle spalle. Invece  per i cavalli   si adottò un collare di legno che, essendo rigido, distribuiva meglio il peso.
            L’aumento della produzione agricola fu agevolato infine dall’introduzione della rotazione triennale. I campi venivano divisi in tre parti una parte veniva seminata a primavera, generalmente con avena o legumi, una parte in autunno, solitamente a grano, la terza restava a maggese, cioè a riposo. Si prese a seminare quindi per due terzi del campo non più solo per metà come prima. Si coltivarono inoltre contemporaneamente più tipi di prodotti e in particolare si introdusse la coltivazione delle leguminose che era molto adatta a restituire fertilità al suolo.
            Grazie a tutte queste innovazioni la disponibilità di cibo crebbe notevolmente non solo in quantità ma anche in qualità. Anche se la carne restava un cibo ricercato  riservato quindi alle  tavole dei nobili, l'abbinamento di cereali e legumi dava anche ai contadini la quantità di proteine necessarie per ottenere una sana e robusta costituzione.
            Fino all'anno 1000 la maggior parte dei contadini riusciva a produrre  giusto il necessario per mantenere le proprie famiglie e dare la parte spettante ai proprietari terrieri per cui lavoravano. L'aumento della produzione dovuto ai miglioramenti tecnologici e la messa a coltura di nuovi terreni portò in molte zone ad una situazione nuova.
            Non si produceva solo il necessario. Parte dei raccolti avanzava e poteva essere venduta.     Non dovendo produrre solo per i propri consumi, i contadini potevano specializzare le coltivazioni dedicandosi solo  a quelle più adatte al clima e al terreno, oppure a quelle che avevano una tradizione antica e che quindi conoscevano e sapevano lavorare meglio. Il grano, per esempio, veniva coltivato principalmente in Francia e nell'Italia meridionale. Nelle regioni mediterranee riprese vigore la produzione del vino.
            Non era più necessario  produrre tutto quello di cui si aveva bisogno. Lo si poteva acquistare. Rinasceva il commercio. Nacquero i mercati e  le fiere. Appuntamenti periodici a cui partecipavano genti provenienti da altre regioni anche lontane. Erano luoghi e momenti di scambio commerciale in cui si poteva trovare di tutto. Rappresentavano però anche un'occasione d'incontro tra uomini provenienti da luoghi anche molto distanti che potevano scambiarsi conoscenze e notizie.
            L’aumento della produzione favorì l’incremento della popolazione.
             Nei primi otto secoli dopo Cristo la popolazione europea era passata da 50 milioni a circa 28, dopo il mille si verifica una ripresa che porterà il numero di abitanti del continente a superare i 70 milioni nel 1300.
            Ma la crescita demografica determinò  a sua volta un ulteriore sviluppo della produzione. Si attivò  un circolo virtuoso che lentamente cambiò il sistema economico,   finendo per determinare, come è normale, un cambiamento sociale e culturale. Ecco spiegato, al di fuori della leggenda, il cambio di mentalità dell’anno  mille!
            Prima si viveva legati alla terra, i servi perché schiavi, ma anche i possidenti, chiusi nei loro castelli. Dopo  il mille si riprese a viaggiare. Non era facile, per le precarie condizioni  delle strade dissestate dopo secoli di incuria. Ma se il collare aveva potenziato le prestazioni del cavallo da tiro, l’invenzione del ferratura degli zoccoli, migliorò enormemente le prestazioni del cavallo da sella.
            Nell’Alto Medioevo l’uso della moneta era quasi scomparso, sostituito dal baratto, ma la ripresa dei commerci ridiede importanza allo scambio del denaro. Alle monete d’argento già comparse nel secolo X si unirono quelle d’oro. Tutte le città più importanti battevano moneta, ma anche i grandi feudatari. Come vedremo, anche in Friuli c’era la zecca del Patriarca d’Aquileia.
            C’erano monete più apprezzate, come il fiorino di Firenze o il ducato di Venezia, che venivano accettate in tutta Europa, come avviene ora per l’euro. Ma se in tanti, come s’è detto, potevano battere moneta, c’erano in circolazione tante valute diverse. Nacque di conseguenza la figura del cambiavalute.
            Girare con troppi soldi, per strade infestate dai predoni, era molto rischioso. Si affermò quindi l’idea della lettera di cambio: si versavano i soldi nella propria banca per riprenderli  dal corrispondente  della stessa banca, in un’altra città o all’estero. Si affermò anche la figura dell’assicuratore per garantire la sicurezza dei trasporti.
            Un’economia dinamica  ha bisogno di scambi e di relazioni. Le città diventarono il luogo privilegiato di queste intermediazioni. Nei secoli precedenti si erano spopolate ma ora presero poco a poco a rifiorire. Dalle campagne vennero richiamati gli artigiani necessari sia per la produzione che per i servizi. Nuove esigenze crearono  nuove attività. Si andò  sviluppando quindi una nuova classe sociale che non era presente nell’economia chiusa dell’Alto Medioevo: la borghesia.
            I benefici della mutata situazione sociale si risentirono anche nelle campagne. Seppure lentamente, si andò superando l’idea che fosse necessario avere degli schiavi, come i servi della   gleba, per lavorare la terra. I proprietari capirono che si poteva trarre  maggiori benefici, dando i terreni in affitto. Il rapporto che prima si basava sulle corvèes, cioè sull’obbligo per i servi di prestare servizi al padrone, finì per basarsi sui canoni d’affitto.
            I beneficiari a loro volta, dovendo pagare la locazione, furono costretti a farsi più intraprendenti portando a coltura nuovi terreni. Si attivò quindi   un circolo virtuoso in grado di produrre maggiori ricchezze, ma destinato anche a modificare la struttura sociale delle campagne. Il  ceto dei liberi affittuari o mezzadri, si andò sostituendo, più o meno rapidamente a seconda dei paesi, a quello dei servi della gleba.
            Gli scambi commerciali imposero la riattivazione delle vie di comunicazione. Nelle posizioni più strategiche si sviluppano a ritmo più intenso aggregazioni urbane, o ne nacquero  di nuove.
            Così, ad esempio, per parlare anche della Carnia nel periodo, alla confluenza tra il But e il Tagliamento, in relazione con il rinnovato interesse che rivestiva la viabilità per passo di Monte Croce Carnico, ai piedi del castello esistente, si andò formando un borgo. Piccolo ancora, ma con le caratteristiche che si sono ricordate per le città. E’ infatti un borgo di mercanti che qui fanno base per i loro traffici tra Venezia e il Centro Europa. Inizia quindi a prendere forma quella che diventerà il capoluogo della Carnia.
            Anche la chiesa, istituzione fondamentale nella vita del Medioevo, dopo il mille venne a cambiare  il modo di porsi e di atteggiarsi. Era stata la chiesa dei disperati che combattevano un’aspra lotta per la sopravvivenza. A loro aveva dato consolazione con la parabola del ricco epulone. Nel culto dei santi e delle loro reliquie, aveva nutrito  le speranze anche quando incombevano le carestie o scoppiava la peste.             Paradossalmente, con l’aumento della povertà s’erano moltiplicate anche le possibilità di peccare e di finire all’inferno. Questo aveva portato i fedeli ad essere praticanti ed osservanti,  ad aggiungere i digiuni  imposti per liberarsi dal peccato, a quelli determinati dalla miseria.
            Interpretando le esigenze della borghesia nascente, la chiesa smise di ritenere che la  ricchezza fosse lo sterco del diavolo. Un po’ perché anche gli uomini di chiesa di stavano arricchendo, per le donazioni avute dai ricchi mercanti. Ma soprattutto perché non si poteva non riconoscere che l’accumulo della ricchezza aveva una positiva ricaduta  anche sullo sviluppo complessivo della vita sociale e sul benessere di tutti i cittadini.
            Ed è proprio attorno alla chiesa che, in questo periodo, si sviluppa in Friuli una nuova organizzazione politica e sociale,  in analogia a quanto stava avvenendo in Germania, in difformità, come vedremo, rispetto alla storia dell’ Italia
             Il patriarcato di Aquileia da istituzione religiosa prese lentamente a trasformarsi nella istituzione politica che caratterizzerà la storia del Friuli, nei primi secoli del nuovo millennio: uno stato feudale a capo del quale vi è un Principe-Vescovo.
            Non è un caso che la rinascita dopo il mille trova in Friuli la testimonianza più evidente, nella costruzione della attuale Basilica di Aquileia, inaugurata il 13 luglio 1031 alla presenza di due cardinali e dodici vescovi. Nella sua grandiosità, si misura il sentimento dell’uomo medievale intriso di religiosità D’un uomo che nella devozione e nella ricerca del miracolo, trovava la forza per nutrire, malgrado tutto, la speranza nel futuro
            Era stata voluta dal patriarca Volfango di Treffen (Carinzia) detto Poppo o Poppone. A lui si deve probabilmente anche la costruzione dell’imponente campanile adiacente, simbolo manifesto, d’una grande fede ma anche dell’importanza che stava riprendendo, o voleva riprendere, Aquileia, dopo secoli di abbandono.
            Due anni prima l’imperatore aveva concesso al Patriarca il diritto di battere moneta, portando a termine, sul piano pratico se non ancora su quello formale,  il percorso di sviluppo autonomo dello Stato patriarchino.
            Un percorso che era iniziato il secolo precedente nella grande crisi conseguente alle feroci invasioni degli Ungari. A conferma che, anche in Friuli è stata la situazione drammatica del secolo precedente a porre le radici della rinascita.
            Era stato  nel 921-24 che il Patriarca di Aquileia Federico s’era distinto per aver sconfitto gli Ungari. Aveva dovuto sostituirsi al  marchese del Friuli, Berengario, impegnato fuori sede perché s’era messo in testa ed era riuscito, come si vedrà, a farsi riconoscere re d’Italia.
             Conclusasi la stagione delle invasioni anche in Friuli c’era da pensare alla ricostruzione.      Per avere l’idea della situazione basti pensare che gli Ungari si erano presentati almeno dodici volte con una crudeltà che nulla aveva da invidiare a quella di Attila, tant’è che si dice siano stati anche cannibali. Forse si tratta d’una esagerazione ma Salomone di Costanza che visitò l’Italia dopo l’invasione del 904 scrive che: “ci stanno davanti le città deserte senza cittadini e i campi desolati senza coltivatori. Le pianure biancheggiano delle secche ossa degli uccisi, il numero dei morti supera quello dei superstiti”.
            A conferma del fatto che  un territorio come il Friuli così devastato aveva perso ogni importanza, nel 955, dopo la vittoria sugli Ungari da parte di Enrico duca di Baviera e Carinzia, il territorio venne prima incorporato alla marca veronese e quindi annesso come una appendice al ducato di Carinzia.
            Ma è proprio il venir meno del rilievo politico del territorio che consente al Patriarca di imporsi con il suo prestigio, occupando il vuoto politico che s’è formato.
            Il territorio friulano stava riprendendo  importanza come luogo di transito per il commercio in fase di forte ripresa. Questo fatto implicava la necessità che ci fosse un controllo forte sul territorio. In questa prospettiva, agli occhi degli imperatori tedeschi, l’organizzazione ecclesiastica aquileiese appariva come l’unica struttura esistente nella regione, utilizzabile anche a scopi politici e civili.
            Toccò così a Poppone,  come accadde per altri vescovadi o badie nell’Italia settentrionale di avere  l’ incarico per occuparsi  anche della difesa materiale dei paesi per i quali aveva la competenza della cura d’anime. Prima della basilica quindi, curò quindi la  riedificazione di molti villaggi e borgate i cui signori erano venuti a mancare. Con la sua azione, impose una accelerazione nel percorso di formazione  del Patriarcato e quindi di quella che sarà la “patria del Friuli”.
            Percorso a cui aveva dato un primo impulso l’imperatore Ottone I quando,  nel 967, con una solenne investitura, aveva concesso in feudo al Patriarca  Rodoaldo, tutte le terre friulane interessate dalle distruzioni degli ungari. Territorio  che nel frattempo era stata ripopolato favorendo successive immigrazioni di slavi, come è dimostrato dal toponimo di  molti paesi come Gradisca, Gradiscutta, Lestizza, Belgrado.
             Con Ottone II e Ottone III continuarono le assegnazioni in amministrazione diretta al patriarca, e già attorno all’anno 1000, i suoi possedimenti superavano quelli del conte di Gorizia, vassallo diretto dell’Imperatore.
            Fu così  che nel 1001 Ottone III   concederà al patriarca Giovanni la giurisdizione delle ville riedificate. Gli imperatori e  re favorirono poi questo compito della chiesa, concedendole direttamente territori e luoghi importanti per la loro posizione.     Nei venticinque anni di patriarcato di Poppo si avrà la vera svolta, e si potrà parlare della nascita, di fatto se non ancora di diritto, del Patriarcato di Aquileia, con il riconoscimento al Patriarca del potere temporale sui propri domini.
            Con il sistema dei benefici, il Patriarca costruì poi su tutto il Friuli una fitta rete di rapporti con persone che, a vario livello e titolo, dipendevano da lui. Ripristinò il sistema di difesa con una  batteria di castelli in ottica tra loro, come efficace sistema di comunicazione. Artegna con Fusea, San Floriano con San Pietro, Sutrio, Paluzza. Così  anche in Carnia vennero importati e introdotti nuovi castellani, chiamati gismani, con l’impegno a riattivare questa serie di castelli nella valle del But.
            Poppo aveva chiara l’idea che il futuro sviluppo del Patriarcato era strettamente legato all’essere il ponte tra l’Adriatico e il Centro Europa. In questa prospettiva, per ben due volte  tentò di annettersi Grado per migliorare lo sbocco al mare. Nel 1024 approfittando di una sollevazione avvenuta a Venezia invase la sede del patriarcato di Grado depredò le chiese e rapì le reliquie che vi si conservavano. Ma poi fu costretto dal doge Orseolo, a restituire ogni cosa. Rinnovò il tentativo poco prima di morire, ripetendo incendi e saccheggi, ma senza raggiungere lo scopo.
            L’obiettivo di rafforzare lo sbocco al mare, si collegava a quello di garantire la sicurezza dei transiti verso i passi. In questa ottica rafforzò il ruolo di Venzone e Gemona, a conferma  forse del fatto che non aveva ancora ripreso del tutto importanza, o non era stato riattivato bene il passo per Monte Croce, e si preferiva quello per Tarvisio.
            E’ probabile infatti che negli ultimi secoli del primo millennio la storia del Friuli si sia fosse spostata sull’asse Gemona, Cividale, Aquilieia.        In quelli che vengono chiamati i “secoli bui” la Carnia sembra quasi uscita dalla storia. E’ diventata una isola ai margini, per lo spostamento delle vie di comunicazione. In questa marginalità si forma la sua identità. Il territorio è occupato da insediamenti sparsi di proprietari gallo-romani, ai quali si erano uniti quelli degli arimanni longobardi, integrati infine dai gismani patriarcali. Si può quindi immaginare la Carnia del tempo come una rete di piccoli castelli con i relativi servi della gleba, ad occupare i borghi sottostanti.
            Lo spostamento degli interessi sulla via del Fella, invece che su Monte Croce, può trovare conferma anche nella fondazione dell’Abazia di Moggio, all’imbocco di quella valle.
            Nel 1118 sarà il patriarca di Aquilieia Voldorico I, abate di San Gallo in Svizzera, a consacrare la chiesa dell’Abbazia in onore delle SS Vergine e di San Gallo. Ne fece un centro di giurisdizione ecclesiastica, probabilmente con l’idea di farne  un centro di riferimento anche per il controllo amministrativo dell’Alto Friuli.
            Ma si collega proprio alla storia dell’Abbazia sul Fella la ripresa  di interesse verso la Carnia e  verso  Monte Croce Carnico, alla quale si legherà la storia di Tolmezzo dei secoli successivi.
            Il  nome di Tolmezzo infatti appare per la prima volta agli onori delle cronache se non della storia, quando nel 1158 certi Varnero e Berta donavano all’abate di Moggio i beni allodiali da essi posseduti “apud Tumech”, presso Tolmezzo. C’erano evidentemente già delle case, un borgo se alcuni anni dopo nel 1199 Papa Innocenzo III concesse ai monaci di Moggio di poter edificare su un terreno di loro proprietà, forse quello avuto in dono, la cappella dedicata a San Martino che poi diventerà il duomo.
            Rispetto alla situazione orografica che avevano trovato i Romani e che aveva sconsigliato loro l’utilizzo a scopi edificatori del territorio, la piana ai piedi del monte Strabut si era andata allargando e consolidando. Il fiume era stato spinto contro la piana di Cavazzo e c’erano le condizioni per utilizzare un territorio interessante per la posizione strategica alla confluenza delle valli. Individuandolo come naturale baricentro di tutta la Carnia. Il Patriarca  vi insediò il suo rappresentante-gastaldo, che vien ricordato per la prima volta in un documento del 1212.
            Per dimora gli viene costruito un castello (oppure ricostruisce ed ingrandisce quello già esistente), utilizzato  anche dal Patriarca nelle sue visite in Carnia.
            Ma col racconto siamo scivolati ben oltre il secolo XI.


Impero e Papato nel secolo XI.
            Tornando alle vicende dell’Europa all’inizio del nuovo millennio, l’idea di rinascita che, come s’è visto, pervase il continente, si concretizzò sotto il profilo politico  in un progetto utopistico e velleitario di rinascita dell’impero come era stato impostato da Carlo Magno.
            Già alla fine del secolo precedente, nei territori tedeschi soggetti alle scorrerie degli Ungari, i grandi feudatari avevano compreso a loro spese  che era meglio fare fronte comune contro l'avversario, invece di combattersi l'un l'altro. Per questo già nel 919 Enrico I duca di Sassonia era stato eletto unico re dei Franchi orientali ovvero dei Germani.
            Enrico aveva dovuto vedersela oltre che con  gli Ungari anche con quei feudatari che non riconoscevano la sua autorità.  Comunque il regno che nel 936 lasciò in eredità al figlio Ottone I  era abbastanza saldo. Ottone  di suo riuscì a consolidarlo e ampliarlo ulteriormente e nel 951, arrivò a farsi incoronare anche re d'Italia, corona che poi passò a Berengario d’Ivrea puntando a ripristinare quella di imperatore.
            L'episodio che l’ha consegnato ala storia  è stato quello della battaglia di  Lechfeld, nel 955, quando,  alla testa della cavalleria germanica, Ottone distrusse l'esercito degli Ungari mettendo definitivamente fine alle loro incursioni.
             Infatti dopo questa  pesante sconfitta gli Ungari  si ritirarono in Pannonia, l’attuale Ungheria, passarono a una vita sedentaria e accettarono la presenza di missionari cristiani. A conferma di questa trasformazione, nell’anno 1000, Stefano I, che verrà proclamato santo, sarà incoronato dal Papa re d'Ungheria.      
            A sua volta, forte del prestigio acquisito come difensore della cristianità, nel 962 Ottone è stato incoronato imperatore dal papa Giovanni XII.
            In realtà il suo desiderio di cingersi la corona imperiale si era incrociato con il desiderio del papa  di trovare un appoggio esterno per riuscire ad imporsi come principe di Roma ampliando i suoi domini al Lazio, titolo che aveva ottenuto prima di Papa.
            E’ doverosa a questo punto una parentesi per capire cosa si dovesse intendere per papato alla fine del primo millennio. La scena romana era dominata dalla nobildonna Marozia che Liutprando da Cremona descrive “bella come una dea focosa come una cagna”. A 15 anni  era già amante, concubina ufficiale di papa Sergio III, suo cugino, molto più anziano di lei. Da lui ha avuto un figlio Giovanni, che sarà poi riconosciuto dal successivo marito Alberico di Spoleto. A soli  21 anni l’imporrà come papa Giovanni XI  diventando di fatto lei papessa.  Entrata in conflitto con lei, il secondogenito Alberico, la farà morire in prigione, prendendo il suo posto come principe di Roma. In tale veste nominerà una serie di papi imbelli con l’idea che il papa dovesse avere solo funzioni religiose. Cambiando idea da vecchio riuscì a imporre suo figlio come principe di Roma e, a soli diciotto anni, anche papa, appunto Giovanni XII.
            Anche se con una corona imposta da un papa diciottenne, l'impero comunque era  rinato.  La sua estensione tuttavia era molto diversa da quella dei tempi di Carlo Magno.       Formalmente quella corna dava ad Ottone la sovranità sull’intera Europa in realtà la sua autorità si estendeva solo ai territori della Germania e dell'Italia. Per questo, più tardi, la nuova realtà sarà detta Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, un’ istituzione che durerà fino al 1805.
            Da un lato l’Italia diventava un’appendice della Germania, dall’altro per merito di Roma e della sua storia, rimaneva il cuore del nuovo Impero. Il Friuli veniva a trovarsi in una situazione privilegiata come  ponte di collegamento tra le due realtà territoriali, su cui si sviluppava l’Impero. Un privilegio che finirà per costare più che portare vantaggi.
            I successori di Ottone si trovarono subito ad affrontare due problemi. Da un lato  dovettero preoccuparsi di consolidare il potere interno, garantendosi la fedeltà dei feudatari tedeschi.             Dall’altro, si prefissero  l’obiettivo di allargare l’Impero almeno a tutta l’Italia. Sia alla parte ancora occupata dai Bizantini, sia  a quella che era stata occupata dagli Arabi.
            A vivacizzare ulteriormente  la politica del momento, se ce ne fosse stato bisogno, concorreva il problematico rapporto tra Papato e Impero, in quella che passerà alla storia come la “lotta per le investiture”.
             La materia del contendere non era da poco: si  discuteva, (più con le armi che con le parole), se fosse superiore il potere spirituale  o  quello temporale.  In altri termini, più semplicemente  si ragionava per capire se il potere politico dovesse dipendere dalla chiesa, o al contrario, fosse la chiesa a dover dipendere dal potere politico. Come si capisce facilmente, era  in discussione il principio fondamentale su chi dovesse controllare l’intero sistema feudale: il Papato o l’Impero.
            Altro grattacapo non meno complesso per l’Imperatore era quello di riuscire a  consolidare il proprio potere centrale, contro le tendenze autonomistiche dei singoli feudatari. Fra una discussione e l’altra emerse l’idea geniale di impedire l’ereditarietà dei feudi. Se alla morte del feudatario il feudo tornava all’imperatore che poteva decidere a chi affidarlo di nuovo, il potere dell’imperatore non sarebbe mai stato messo in discussione.
            Ma come impedire ai feudatari di avere figli ai quali trasmettere il feudo in eredità? Nulla di più facile se i feudatari fossero stati vescovi o abati che per disposizione della chiesa, non potevano avere figli, (quantomeno quelli legittimi!).
            Così  l’imperatore, per mantenere l’unità dell’impero, decise di affidare i feudi a vescovi e arcivescovi, o patriarchi come nel caso del Friuli che diventavano vescovi-conte,.
            Era una pratica già usata da Carlo Magno, ma Ottone la consolidò  e la diffuse facendo dei vescovi-conti i pilastri della propria autorità.
            In questo modo Ottone, assicurava ai territori anche una migliore amministrazione dato che i vescovi erano generalmente più istruiti e preparati dei nobili. Allo stesso tempo si garantiva un ceto di feudatari fedeli perché dovevano la loro autorità esclusivamente alla sua benevolenza.
            E proprio in questa prospettiva che si viene rafforzando sempre più il anche il ruolo del Patriarca dei Friuli. I documenti del tempo ci danno i Patriarchi (Rodoaldo (963-983) e Giovanni di Ravenna (984-1019), sempre al seguito degli imperatori nelle loro discese a Roma.
            E’ evidente però che  con l’investitura dei vescovi-conte  Ottone I  si metteva contro il Papa: a scegliere chi infeudare era lui, al papa non restava che attribuire al prescelto l’ordinazione sacerdotale e vescovile. Nella mente di Ottone poi l’idea si collegava e discendeva da quella di fondo che  prevedeva anche la sottomissione del Papa all'Imperatore.
            Il titolo di imperatore era rimasto null’altro che un titolo, disputato tra piccoli feudatari. Peraltro vacante dopo la morte di Berengario del Friuli (924). Facendosi incoronare da Giovanni XII, Ottone intendeva riproporsi sulle orme di Carlo Magno.
            Perché non ci fossero dubbi sulle sue intenzioni,  subito dopo l'incoronazione imperiale, aveva emanato un decreto( il cosidetto privilegio di Ottone) in cui stabiliva che un papa non poteva essere eletto senza l’approvazione dell’imperatore.  Questo gli consentiva di  mettere sul trono papale persone di sua fiducia e in questo di piegare  la Chiesa ai suoi voleri. Un progetto audace è ambizioso che nei secoli successivi condurrà, come vedremo, a lunghe lotte tra Papato è Impero, ma che al momento non fu contestato. Basti pensare che il papa che l’aveva incoronato da laico era un diciottenne di nome Ottaviano sporco che venne ordinato prete lì per lì per poter diventare Papa
            Lui stesso dovette scendere a Roma per ben quattro volte per garantirsi un papa fedele. Giovanni che l’aveva incoronato si era pentito e brigava con Berengario d’Ivrea che s’era preso il titolo di re d’Italia senza dipendere dall’Imperatore. Lo depose sostituendolo con Leone VIII. Ma i romani reintegrarono Giovanni e quando questi venne a morire, ucciso dal marito di una sua amante, chiamarono a succedergli Benedetto V. Ottone ridiscese e dovette espugnare Roma per rimettere Leone, che però morì, non è chiaro come.
            Alla morte , nel 976, gli successe il figlio Ottone II appena diciottenne. Si dedicò  soprattutto ad ampliare i domini imperiali nell'Italia del sud e per questo cercò l'alleanza dell'Impero d'Oriente, sposando anche la principessa bizantina Teofane, Venne però duramente sconfitto dagli arabi in Calabria. Approfittando poi della sua lontananza, molti feudatari tedeschi e italiani si ribellarono alla sua autorità.
             A succedergli  nel 983, fu  incoronato il figlio Ottone III che  però aveva solo 3 anni. Il governo effettivo fu quindi assunto dalla madre Teofane e da un suo consigliere, il monaco Gerberto d'Aurillac considerato l'uomo più colto del tempo. I due educarono il piccolo nell'amore della cultura antica e nel  desiderio di rinnovare i fasti dell'Impero Romano.
            Così, una volta assunto effettivamente il potere, Ottone III, nel 999 trasferì la sede imperiale a Roma e fece eleggere papa il suo istitutore Gerberto che prese il nome di Silvestro II. Finalmente un Papa serio, dopo un marasma di papi e antipapi nominati dall’imperatore e dalle famiglie romane, che avevano dato seguito in peggio alla pantomima che s’è visto con Ottone I.
             Ma il sogno dei due ebbe breve durata. Già nel 1001 per la ribellione dei feudatari tedeschi e l'ostilità degli aristocratici romani furono costretti  a fuggire da Roma.   
            Ottone III morì l'anno successivo a soli 22 anni e Gerberto lo seguì nella tomba l'anno dopo.
            Il papato tornò nelle mani delle famiglie romane che se lo disputarono con qualche ingerenza imperiale a suon di papi ed antipapi che non hanno lasciato grandi tracce. Il principio per il quale doveva essere eletto dal sinodo dei vescovi romani, restò appunto, poco meno che un principio
            Seguendo le vicende imperiali ci imbattiamo in Enrico II il Santo (1014-1024), cugino e successore di Ottone III, alle prese con i due soliti problemi: feudatari ribelli e papi antagonisti.    
            A proposito di feudatari troppo indipendenti,  proprio in Italia dovette vedersela con Arduino d'Ivrea che alcuni feudatari della penisola avevano proclamato re. Ebbe la meglio su di lui. Ma non riuscì  nel proposito di conquistare l'Italia meridionale che era finita nella mani dei Normanni. Si meritò invece l’elevazione agli onori degli altari convocando assieme al Papa il concilio di Pavia (1022), contro il concubinato degli ecclesiastici.
            Il successore Corrado II di Franconia (1024-1039) si preoccupò di rinsaldare l’impero, consolidando il rapporto tra Italia e Germania  e quindi i collegamenti tra le due realtà.
            In questa ottica rafforzò la marca di Carinzia includendovi Trento. Rafforzò il Patriarcato di Aquileia concedendo  al patriarca di allargarsi sui territori tra il Livenza e il Piave. ma soprattutto ne rafforzò il ruolo in autonomia rispetto a Gorizia.
            Il Friuli diventava così un esempio lampante della politica degli imperatori di privilegiare l’investitura dei feudi a uomini di chiesa, per evitare di dover subire le conseguenze del principio dell’ereditarietà.
            Nel 1027 l’imperatore Corrado II aveva stabilito con il patriarca Popone che i territori del Patriarcato non dovevano dipendere più civilmente in alcuna maniera dal Conte di Gorizia. Il patriarca diventava così  feudatario di primo grado  dipendente solamente dall’imperatore.
            Per comprendere il formarsi dello Stato Patriarchino, come di tutti i feudi nel Medioevo è necessario partire dall’idea che lo Stato è patrimonio personale dell’Imperatore. Proprietà privata quindi! Anche oggi la proprietà privata si può cedere in vari modi ed a vari livello: nuda proprietà, diritto di superficie, usufrutto ecc. Allo stesso modo allora, l’imperatore cedeva le sue proprietà ai feudatari a al vescovo-conte, come nel nostro caso.
            All’inizio, nel caso del Friuli, ci furono cessioni di proprietà su piccoli territori a fermare una specie di arcipelago di tante isole. Poi le isole cedute si salderanno tra loro in un territorio unitario, all’interno del quale c’è un arcipelago di tante isole cedute al conte di Gorizia o ad altri, marchesi, principi e conti. In un primo momento l’Imperatore trasmette solo la proprietà, poi viene concessa l’esenzione dal fisco statale e infine l’immunità cioè la delega di poteri sovrani.
            Enrico II poi, concedette a Poppone, sui terreni assegnati da lui e dai predecessori, il diritto di placito (cioè il potere giudiziario), il diritto di riscuotere fodro (imposte in merce) e angarìe (imposte in denaro) e infine il diritto di battere moneta.
            Tornando all’Europa, Corrado II non era riuscito ad imporsi generalizzando  la politica di infeudare i vescovi. I grandi feudatari continuavano a minacciare l’integrità dell’impero e a mettere in discussione il potere dell’imperatore.
            Allora, per difendersi dall'invadenza dei grandi proprietari,  non trovò di meglio che appoggiarsi ai piccoli feudatari e nel 1037 emanò la  Constitutio De Feudis , con la quale concedeva l'ereditarietà anche dei feudi minori.
            Peggio il “tacòn del buso” si direbbe a Trieste. Invece di ottenere  i risultati sperati,  la Constitutio diventerà la premessa della definitiva disgregazione del sistema feudale che, venuti meno i rapporti gerarchici di vassallaggio, finirà in  una lotta continua di tutti contro tutti.
            Non andava  meglio al Papato!
            Tra simonia e concubinato l’istituzione era degenerata oltre ogni limite di decenza. Al punto che è lo stesso imperatore a sentire il dovere di  intervenire per mettere ordine. Così  Enrico III con il Privilegio di Sutri (1046) ribadirà il diritto di designazione del Pontefice da parte dell’Imperatore. Meglio un Papa designato da una figura esterna come l’imperatore  che disputato in una continua rissa tra le famiglie romane.
             Ma l’intervento, anche se mosso da buoni propositi, stabiliva un’inaccettabile superiorità dell’Impero sul Papato.
            L’urgenza d’una azione di riforma alla fine venne avvertita anche all'interno della Chiesa. Dal monastero di Cluny in Francia partì  un movimento riformatore  per richiamare i Benedettini al rispetto della regola dell’ ora et labora,  che darà luogo alla fioritura di ordini religiosi riformati, come  i certosini, i  cistercensi e i  Camaldolesi.​
            Salendo dal basso, alla fine il movimento riformatore raggiungerà anche il papato.  Leone IX  (1049–1054)  si proporrà appunto di rinnovare la Chiesa dal suo interno. Per farlo si circondò di consiglieri di grande statura culturale e morale  come Pier Damiani e Ildebrando di Soana.
             Il suo successore Niccolò II portò  la riforma a sciogliere il nodo della Chiesa sottomessa al potere politico, rovesciando il principio alla base del problema. Appena eletto convocò a Roma un concilio nel quale stabilì che nessun laico aveva il diritto di conferire cariche ecclesiastiche. 
            Con lo “Statutum de electione papae” del 1059 stabilì che la elezione del Papa è riservata ai cardinali vescovi delle chiese suburbicarie e ai titolari delle chiese di Roma.
            Capita spesso che il meglio sia nemico del bene, così anche in questo caso volendo andar oltre  nell’azione riformatrice della chiesa, il Papa si scontrò con il patriarca di Costantinopoli che si opponeva, in particolare, all’introduzione dell’obbligo di celibato per gli ecclesiastici. Pur animato dai più buoni propositi realizzò così il disastro dello scisma che ancora perdura tra la chiesa cattolica e  quella ortodossa.
            Dimenticandosi del Vangelo del perdono, Papa e Patriarca si scomunicarono a vicenda nel 1054 si formalizzerà la nascita delle due chiese.
            A succedergli è chiamato proprio il suo consigliere Ildebrando di Soana, con il nome di Gregorio VII, e lo scontro con l'imperatore Enrico IV raggiunse  l’apice.
            Gregorio infatti diede mano con grande energia ad una riforma radicale della Chiesa. Per contrastare il tentativo dell’imperatore di ingerirsi nel controllo della Chiesa, emanò il “Dictatus Papae”. Nel documento si portava l’argomento a livello teologico: si decretava e definiva  il primato romano e l’origine  divina della Chiesa. Sottolineando la necessità di separare potere temporale e potere spirituale, si rivendicava la superiorità del secondo sul primo.
             Enrico  IV naturalmente  si oppose e nella dieta di Worms chiamò Gregorio “non più papà ma falso monaco”, Venne scomunicato. Della scomunica  approfittarono i suoi feudatari per ribellarsi. La scomunica infatti scioglieva il vincolo di subordinazione che legava i sudditi all’imperatore.
             Costretto per questo a fare buon viso a cattivo gioco, dovette piegarsi a chiedere perdono. Scese a incontrare il Papa nel castello di Canossa sull’Appennino reggiano, chiedendo la mediazione della contesa Matilde. Il Papa non era molto convinto del suo pentimento e lo fece attendere tre giorni fuori dal castello, in ginocchio nella neve, prima di riceverlo. Alla fine il papa, che avrebbe dovuto diffidare dei consigli d’una donna, ricordando la scena di Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, invece si lasciò  convincere da Matilde,  e  tolse la scomunica ad Enrico.
             Come era facilmente prevedibile, Enrico, salvata la corona, si  organizzò per prendersi la rivincita e vendicarsi dell’offesa ricevuta. Ma la situazione era degenerata più di quanto potesse immaginare. Quando  tentò di rientrare  in Germania per ristabilire il suo potere, scoprì che i nobili locali che controllavano i valichi alpini, il Duca di Carinzia e il  Conte di Gorizia, suoi feudatari, si erano schierati con la nobiltà tedesca. I ribelli  gli avevano sbarrato i passi alpini, impedendogli il rientro. 
            Solo il Patriarca d’Aquilieia Sigeardo  che gli era rimasto sempre fedele e che già in precedenza aveva ri-comunicato Enrico IV in Aquileia, anche senza il placet del papa, gli andò incontro e lo scortò con le proprie truppe fino ai passi da lui controllati, quello di Monte Croce e di Tarvisio.
            Per la fedeltà dimostrata nel garantirgli il passaggio per rientrare in Germania, Sigeardo ottenne dall'imperatore, con la dieta di Pavia del 3 aprile 1077, l'investitura feudale di Duca del Friuli col titolo di principe“Princeps Italiae ed Imperii(dopo aver deposto il conte Ludovico, che ricopriva tale carica fino a quel momento). In seguito, con la dieta di Norimberga dell'11 giugno dello stesso anno, gli verranno assegnati anche i titoli di Marchese d'Istria, Margravio della Carniola,
            Venne così istituita ufficialmente la Patria del Friuli, che  avrà un proprio esercito,  vero stato temporale del Patriarca di Aquileia non soggetto a nessun altra autorità civile,  feudo diretto del  Sacro Romano Impero germanico.
            Intanto Corrado, ripreso il controllo sui principi tedeschi che avevano approfittato per ribellarsi, scese in forze a Roma e si fece incoronare imperatore  dall'antipapa Clemente III, da lui nominato, mentre Gregorio fuggiva a Salerno dove morirà nel 1085. A succedergli   il  conclave chiamò Vittore III, ma c’era in campo anche Clemente III, l’antipapa. Il problema fu risolto “naturalmente” dalla morte di entrambi.
            Fu eletto allora  Urbano II ( 1088-1099) che riuscirà a rilanciare il ruolo del papato, promuovendo un grande ideale di grande respiro, perché non si guardasse più alla quotidianità di comportamenti che avevano ben poco a vedere con il Vangelo. Proclamò, come vedremo, una grande crociata invitando tutta la cristianità ad unirsi per recuperare il Sepolcro del Gesù del Vangelo.
            Sigeardo era venuto a mancare improvvisamente  pochi mesi dopo l'investitura, il 12 agosto 1077. Il suo amico imperatore invece era stato addirittura deposto dal figlio che aveva preso il suo posto con il nome di Enrico V.
            Costui, s’era messo in testa di riprendere a bisticciare con  il papa Pasquale II. Sceso a Roma per cingere la corona, venne a patti per farsi incoronare. Ma i suoi dignitari lo contestarono. La cerimonia fu sospesa e finì in un parapiglia, con il papa in prigione per due mesi. Riconquistò la liberta in cambio dell’incoronazione, ma ripartito l’imperatore fu accusato di aver “commesso un pravilegio non concesso un privilegio”e dovette ritrattare. L’imperatore fu costretto a ridiscendere con un grosso esercito per chiarire con la forza i termini della questione. Perché tutto fosse ancor più chiaro, impose un antipapa con il nome di Gregorio VIII. Callisto II successore di Pasquale, convinse allora l’imperatore a mettere in campo il buonsenso invece delle armi. Enrico capì che non valeva la pensa continuare nel braccio di ferro. Si giunse così, nel 1122, allo storico concordato  di Worms con il quale  si metteva la parola fine alla lotta per le investiture.
            Si concordò che nessun laico poteva nominare i vescovi, ma che comunque l’imperatore poteva assegnare loro compiti politici. Si formalizzò per i vescovi-conte  il compromesso della doppia investitura, spirituale e temporale, in Germania la temporale procedeva la spirituale, in Italia viceversa. Come è normale per un compromesso, la questione non fu risolta definitivamente, ma quantomeno si pose fine al tentativo dell’impero di imporre il suo potere sulla chiesa.
             Negli stessi  tempi nei territori dell’attuale Francia, dalla notte dell'anarchia feudale stava emergendo  gradualmente l'autorità dei conti di Parigi, finché nel 987 uno di questi,Ugo Capeto venne incoronato re di Francia. Iniziava così una dinastia, quella dei Capetingi, che tra alterne vicende sarebbe rimasta sul trono francese fino al XIX secolo.
            Nel frattempo le cose cambiavano anche sulle rive dell'Atlantico, dove, come s’è visto si erano insediati i Normanni. Nel  911 un loro capo  Rollone giurò fedeltà al re dei Franchi  Carlo il semplice, in cambio ottenne il titolo di duca e alcune terre nel nord ovest del paese che successivamente costituiranno il ducato di Normandia.
            Così, come gli Ungari, anche i terribili Vichinghi, di cui s’è detto, si stabilizzarono, ricevettero il battesimo e cominciarono a integrarsi nel sistema feudale.  Infine nel 1066 un duca di Normandia Guglielmo, detto poi il Conquistatore, attraversò il canale della Manica e sconfisse il re degli Angli e dei Sassoni Aroldo II, nella battaglia di Hastings. Divenne così il primo  re d'Inghilterra.
             Cominciavano in questo modo a prendere forma due regni che sarebbero stati protagonisti della storia europea nei secoli a venire
            Tra le scorrerie dei nuovi invasori e le continue lotte tra i feudatari, la vita in Europa occidentale era diventata sempre più insicura. La necessità di proteggersi, tra il IX e il X secolo favorì il  sorgere nuove strutture difensive. Si chiameranno  castelli e con il tempo diventeranno un elemento caratteristico del paesaggio del continente, e quindi anche del Friuli, come s’è visto, a protezione delle strade per i passi alpini. . Sembra che nella sola regione Toscana ne siano stati  costruiti quasi mille, lo stesso accadde in Spagna dove un'intera regione costellata di castelli venne per questo chiamata Castiglia.
            All'inizio queste costruzioni avevano un aspetto tutt'altro che imponente. I primi castelli erano semplici torri quadrate costruite in terra battuta e legno alte pochi metri e circondate da un fossato. Quasi sempre erano costruite in cima a un altura da dove era possibile tenere sott'occhio il territorio circostante.
             La decisione di erigere un castello veniva presa da un signore ma alla sua costruzione partecipavano solitamente tutti gli abitanti delle campagne circostanti. Perché essi erano tenuti dalla condizione di servi a prestare al Signore un certo numero di giornate di lavoro, dette corvées,  ma  anche perché in caso di attacco il castello era un rifugio per tutti.
            Abbastanza rapidamente i castelli divennero anche un centro della vita economica. Qui infatti i contadini presero  a portare al sicuro il loro raccolti, qui cominciarono a insediarsi alcuni artigiani, da qui si poteva organizzare un migliore sfruttamento delle terre circostanti. Con le ricchezze che cominciano ad affluire fu possibile ampliare le costruzioni originarie, soprattutto con la realizzazione  di una o più cinte di mura e torri di pietra dalle quali era facile bersagliare i nemici.            Così i castelli si fecero sempre più grandi e robusti, divennero pressoché inespugnabili  e diventarono  un vero e proprio simbolo del potere del Signore che li abitava. Infatti ogni proprietario voleva che il suo castello fosse,  anche al di là delle strette necessità militari o economiche, sempre più grande e più bello, un vero status symbol.
            I castelli avevano una struttura identica la parte più interna si chiamava mastio. Era  il nucleo originario del castello, la residenza del signore. A partire dal mastio, nel corso del tempo e dei secoli, il castello prese a espandersi con la costruzione di altre cerchie di mura. Per questo il castello finì per avere una struttura articolata e venne ad affiancare alla sua funzione originaria di difesa anche quella di rappresentante della grandezza del potere politico del signore.
            Anche il paesaggio del Friuli prese a essere costellato  di queste nuove costruzioni, collocate sulle alture. Corrado II aveva rafforzato il Patriarcato perché sentiva l'esigenza di  mantenere un efficiente collegamento l'Italia e la Germania. In questa prospettiva riacquistarono importanza i passi alpini e quindi ha ripreso un ruolo la via Julia Augusta verso Monte Croce Carnico. Di conseguenza venne  riattivato e rafforzato il sistema di difesa. L’insieme dei castelli che aveva preso a risorgere subito dopo la devastazione degli Ungari, si consolidò anche in Carnia, a partire da quello di Tolmezzo, residenza del gastaldo, il rappresentante del Patriarca per la Carnia.